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ANDREA DOMENICI “Playing who I am” Abeat (2019)

We See / It’s Easy to Remember / Daniela / Bubba / You Don’t Know What Love Is / Shuffle Boil / Ruby My Dear / For Kenny / Melancholia-Goodbye

Andrea Domenici, pianoforte; Peter Washington, contrabbasso; Billy Drummond, batteria 

Meno male, ogni tanto appare un disco che ci conforta sul fatto che – per fortuna – esistono giovani tuttora legati alla tradizione, entusiasti del linguaggio dei grandi padri del jazz moderno e che intendono proseguire sulla via dello swing pur guardando ben volentieri al futuro. Andrea Domenici è uno di questi, tanto da aver lasciato l’Italia e preferito New York, dove vive dal 2012, città unica se si vuole “respirare” il jazz in tutti i suoi risvolti musicali e di vita. Tra l’altro, ho anche avuto modo di conoscerlo personalmente, in occasione di un delizioso concerto accanto alla pianista classica polacca Radosia Iasik. Se lei ha eseguito Scarlatti e Chopin, Andrea ha affrontato Ellington, Powell (“Un Poco Loco”: chi lo suona più?) e Phineas Newborn con l’umiltà e, allo stesso tempo, una sicurezza da musicista del tutto maturo. Nel suo pianismo si intravedono tracce di Hank Jones, Ray Bryant, Tommy Flanagan, Barry Harris e Kenny Barron, uno dei suoi principali sostenitori. Insomma, l’eleganza al massimo livello, che mi piace sottolineare al servizio di una felicità compositiva (ben tre qui i temi da lui scritti) forse inattesa. Infatti, ascoltando il disco tutto di filata, gli originali si succedono agli standard senza accusare cedimenti espressivi, seguendo un preciso filo logico esecutivo. Fra i temi monkiani e di Ellington e i brani del grande songbook americano, Andrea si muove con notevole agilità tecnica e freschezza negli arrangiamenti, così da muovere la ritmica secondo le prerogative dei musicisti e arrecando sempre quel pizzico di sorpresa – che so, una ballad presa invece a tempo sostenuto, Monk (ri)letto evitando il più possibile le sue tipiche dissonanze, ma con un’attenzione maggiore rivolta alla bellezza melodica dei temi – necessaria a tenere desta l’attenzione anche all’ascoltatore più scafato. Ecco forse la parola più giusta: bellezza! Come altro si può descrivere questa versione di “It’s Easy”, oppure “You Don’t Know”, di cui mi devo sforzare parecchio per ricordarne un’altra di pari intensità? Il ricordo di Monk si fa urgente con “Shuffle Boil”, brano che l’autore registrò una sola volta (”It’s Monk’s Time”, Columbia) e molto di rado eseguito da tutti tranne, curiosamente, Steve Lacy, il quale lo presentava spesso nei dischi o concerti. I tre brani composti da Andrea soggiacciono a strutture diverse: dispari per “Daniela”, bop puro per “Bubba”, e profumo di Brasile in “For Kenny”, dedicato a Kenny Barron: uno più intrigante dell’altro.

Detto ciò, non posso tralasciare l’operato di Peter Washington e Billy Drummond, autentici fuoriclasse che qui sembrano esprimersi al meglio delle loro possibilità, che ben conosciamo essere enormi. Sono quasi palpabili la comunione d’intenti, la gioia nel suonare insieme e il condividere un percorso comune. Chiudere il disco con momenti di alto lirismo come “Melancholia”, altro tema rarissimo quanto straordinario stavolta di Duke Ellington (vi prego, ascoltate la sua versione per solo piano nel postumo “An Intimate Session”) e “Goodbye”, legato per sempre a Benny Goodman, significa terminare un’opera prima con un messaggio chiaro di un jazzista a tutto tondo, i cui orizzonti estetici non potranno che riservarci ulteriori, emozionanti, conferme.

Concordo in pieno con le parole di presentazione di Dado Moroni, mentre aver ringraziato, fra gli altri, due grandi pianisti italiani come Mario Rusca e Rossano Sportiello fa entrare di diritto Andrea Domenici anche nel club di amici di “Ancona Jazz”, ad honorem!

Massimo Tarabelli

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