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BARNEY WILEN “Live in Tokyo 91” – Elemental Music (2019; 2 CD)

Beautiful Love/ L’ame des poetes/ Mon Blouson/ Que reste-t-il de nos amours?/ Besame Mucho/ How Deep Is the Ocean/ Little Lu/ Old Folks/ Latin Alley/ Bass Blues/ No Problem/ Goodbye/ Doxy

Barney Wilen, sax tenore, sax soprano; Olivier Hutman, pianoforte; Gilles Naturel, contrabbasso; Peter Gritz, batteria

Di Barney Wilen, scomparso nel 1995, temo che rimanga ora solo il ricordo della sua partecipazione nel celeberrimo “Ascensore per il patibolo” inciso da Miles Davis nel 1957. Colpa di una discografia affidata più che altro a piccole etichette, e quindi soggiacente a ben scarsa diffusione, ma anche e soprattutto ad una, purtroppo sempre più esile, volontà di indagare la storia di questa musica, di capire quanto il passato, nei suoi tanti risvolti, condizioni il presente. Wilen può essere preso ad esempio di come un musicista riesca a piegare vari stili e tendenze ad una costante, peculiare, espressività. Nato a Nizza nel 1937, da madre francese e padre americano, ottiene prestissimo, appena ventenne, il premio Django Reinhardt dell’Accademie du Jazz (il più prestigioso riconoscimento in Francia) e nello stesso anno entra nelle grazie di Miles e di altri bopper fondamentali come Bud Powell, J.J.Johnson, John Lewis, Thelonious Monk, Dizzy Gillespie, Roy Haynes. Miles lo convoca anche per un tour europeo in quintetto, accanto a René Urtreger, Pierre Michelot e Kenny Clarke (“The Complete Amsterdam Concert” del 1957, etichetta Celluloid, doppio LP). La sua strada da allora è segnata: il bebop lo conquista pienamente, e la sua capacità di scrittura si mette alla prova anche nelle colonne sonore. Poi il silenzio. Anni inquieti, in cui esperienze “free” e africane si affiancano a lunghi anni di assenza da qualsiasi scenario. Negli anni ’80 trova la forza di ritornare, spinto da un momento musicale che molto si avvicina alla creatività dei tempi giovanili. Un disco in particolare, “La Note Blue” (Ida Records) del 1987 lo riporta con prepotenza all’attenzione della critica e del pubblico.
Tanti hanno modo di ascoltare per la prima volta un suono vellutato, affascinante, e un fraseggio sempre altamente melodico nella riproposizione di temi immortali del repertorio bop, così come della canzone d’autore francese e di ballad leggendarie, di quelle che ti entrano sottopelle, alla stregua di un Chet Baker o, per restare al suo strumento, un Lester Young. Noi, che già lo amavamo, lo rincorremmo per un po’, ma alla fine riuscimmo a proporlo in esclusiva italiana allo Sperimentale, nel dicembre del 1989. Riprendo in mano il mio libro “Il gomito del jazzista” e ve lo descrivo: “La sua figura di artista eccentrico, tutto vestito di nero e occhiali da sole, fotografava un periodo passato che non lo teneva però prigioniero in uno sterile processo revivalista. Il magnetismo che sprigionava il suo sax tenore stava tutto in questo segreto”. Anche se l’atmosfera del quartiere latino e il clima fumoso dei club di St. Germain-de-Pres rimanevano irripetibili.
Il Giappone stravedeva per lui, e in pratica lo invitava ogni anno con il suo quartetto. Così questo recentissimo doppio CD delle Elemental Music (che mi sembra ben avviata nello scovare inediti di importanti musicisti) diventa non solo preziosa testimonianza di grande jazz, ma anche uno dei pochi, se non unico, titolo oggi disponibile di Barney Wilen. Ovviamente fondamentale, anche se già avete qualche altro suo disco. La qualità della registrazione è più che buona, effettuata dallo stesso Wilen con il suo mini-DAT appena acquistato, e il repertorio parla da solo, tanto era tipico di qualsiasi suo concerto. Ci sono i temi che ripeteva spesso, per non dire sempre, come quelli dell’amatissimo Charles Trenet, e poi “No Problem” di Duke Jordan (dalla colonna sonora di “Liaisons Dangereuses” di Roger Vadim) e “Besame Mucho”, che ricordo come brano di chiusura del trionfale concerto di Ancona. E poi standard del Great American Songbook e un paio di soprese, come “Bass Blues” di John Coltrane e “Little Lu” di Sonny Rollins, tratto dall’album elettrico “Love at First Sight” del 1980. Tutti questi brani sono accomunati da una volontà creativa incessante e appassionante, tanto da superare spesso i dieci minuti di durata. E gli accompagnatori si rivelano splendidi, allineati con la forza propulsiva di Wilen, a partire dall’eccellente pianista Olivier Hutman, tuttora molto attivo, per poi finire con gli altri, il fido bassista Gilles Naturel, e il batterista ungherese Peter Gritz, partner non certo occasionali e quindi necessari per captare al volo le intuizioni del leader di turno, prassi che la storia del jazz non cessa di insegnare.
Un personaggio, un artista, un poeta, in definitiva. Uno di quelli di cui non possiamo fare a meno.

Massimo Tarabelli

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