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DUKE ELLINGTON “An Intimate Piano Session” – Storyville ( 25 Agosto 1972 – 2017)

The Anticipation / Le Sucrier Velours / Lotus Blossom / A Blue Mural From Two Perspectives / I’m Afraid (Of Loving You Too Much) / I Didn’t Know About You / Loco Madi / Lotus Blossom (take 2) / New World A-Comin’ / Le Sucrier Velours (take 2) / Melancholia / Single Petal of a Rose / The Blues Ain’t / Come Sunday / My Mother, My Father and Love / A Blue Mural From Two Perspectives (take 2) / Black Swan / The Lake / Satin Doll / Just Squeeze Me 

Duke Ellington, pianoforte; Anita Moore, voce (brani 5,6); Tony Watkins, voce (brani 13,14,15); ultimi 4 brani : Duke Ellington, pianoforte; Wild Bill Davis, organo; Victor Gaskin, contrabbasso; Rufus Jones, batteria (Rotterdam, 7 Novembre 1969) 

Nell’oceanica discografia di Ellington i dischi di solo piano sono in netta minoranza, tale comunque da non giustificare affatto quel senso di indifferenza nei riguardi della sua tecnica strumentale. La realtà è ben diversa : il Duca non fu solo supremo compositore, arrangiatore e creatore di un universo  tanto ampio da meritare un posto di assoluto rilievo nella storia della musica, senza barriere e divisioni stilistiche, ma anche pianista originalissimo, padrone sì di un fraseggio non accostabile a quella di un Art Tatum, ma forte di un linguaggio del tutto personale, basato su una profonda libertà ritmica e armonica. Il suo tocco, possente e percussivo, tale da lasciare in controluce ancestrali richiami africani, le sue introduzioni spesso dissonanti (Monk? Waldron?), il suo senso inattaccabile del blues, la capacità del respiro lungo, il mood che permeava ogni composizione di un’eleganza con pochi uguali, sono caratteristiche che, al mio orecchio, soltanto il sommo Earl Hines dimostrò di possedere in toto. Detto ciò, vengo subito al disco in questione, meraviglioso per rigore e afflato poetico, di grande interesse per la scelta di un repertorio per lo più poco noto perché facente parte di suites orchestrali. Già si entra subito in tale contesto con il brano d’apertura, tratto da “The Uwis Suite”, composto in onore dell’Università del Wisconsin. Anche “Le Sucrier Velours”, chiamato talvolta “Do Not Disturb”, fa parte di una suite, per la precisione la splendida “The Queen’s Suite” del 1959. Ma l’arrangiamento iniziale per orchestra, con spazio a Ray Nance, nel decennio successivo è diventato un veicolo per il solo piano, e qui il Duca ci offre due versioni, di cui la prima prevede un chorus in più. Incontriamo poi il primo vero standard, una gemma di Billy Strayhorn intitolata “Lotus Blossom”, affrontato da tanti jazzisti, e che il Duca amava proporre spesso come bis in solo dopo un concerto dell’orchestra. “A Blue Mural” è una chicca di estrema rarità, infatti nelle discografie compare una sola altra volta, inciso pochi mesi prima in trio, con Joe Benjamin e Rufus Jones, per il CD “Live at the Whitney” (Impulse! 11732). Nei due brani successivi si esibisce al fianco di Ellington la cantante Anita Moore, la quale non sfigura affatto , soprattutto in “I Didn’t Know About You”, e che evidentemente si giova di questa situazione cameristica. Ricordo bene infatti come venisse criticata in modo feroce quando veniva chiamata sul palco dal Duca (vi ricordate : “And Now, Anita Moore, One-Two-Three-Four”?). Medesima sorte era riservata a Tony Watkins, robusto cantante di impostazione da baritono lirico, che qui si dimostra invece profondo e commovente interprete di perle come “The Blues Ain’t” e “Come Sunday”, entrambi provenienti dalla celeberrima suite “Black, Brown and Beige”. In particolare, per “Come Sunday” Duke ha chiesto di abbassare tutte le luci dello studio per permettere così al cantante la massima concentrazione verso un testo,  parte in Inglese e parte in Ebraico, sottolineato dal pianista con un accompagnamento ricco di musicalità e sentimento, da lasciare a bocca aperta. Il tour de force della seduta è rappresentato da “New World A-Comin’”, lunga composizione (oltre 9 minuti) ricca di contrasti ed eseguita per la prima volta nel celebre concerto per orchestra alla Carnegie Hall del 1943. Una versione in trio è disponibile nel già citato Impulse! dello stesso anno, ed è coinvolgente ascoltare l’esecuzione pensando che questo “nuovo mondo in arrivo” si riferisce al futuro del popolo di colore, come descritto nell’omonimo libro di Roy Otley.  I due capolavori successivi sono stupendi substandard che meriterebbero di essere riletti più spesso, anche da musicisti contemporanei. “Melancholia” è apparso per la prima volta nell’album Capitol “Piano Reflections” (oppure “The Duke Plays Ellington”, a seconda delle edizioni) del 1953, in trio con Wendell Marshall e Butch Ballard. Qui il Duca rallenta il tempo, allunga la durata e accentua un sentimento di tristezza e malinconia, per l’appunto, che pervade l’intera esecuzione : eccezionale! Dalla “Queen’s Suite” viene infine ripreso “Single Petal of a Rose”, uno dei miei preferiti insieme con “Sunset and the Mockingbird”, e allora lo spirito si trasforma dall’atmosfera precedente, facendosi più tenero e romantico.

I quattro brani aggiunti come bonus, bis di un concerto dell’orchestra, poco aggiungono alla bontà del disco, ma “The Lake” merita qualche parola in più. Tema suggestivo e cantabile, preso ad un tempo latino, era il motivo centrale del balletto “The River”, e questa fu la sua prima versione pubblica, di grande piacevolezza. Esiste anche un’interpretazione per solo piano dell’intera suite, compresa nel CD “The Piano Player”, sempre per la Storyville.

Non ponendomi più domande sul perché certe registrazioni così belle e importanti rimangano per decenni in un cassetto, non mi rimane che consigliarvi caldamente questo inedito di un maestro assoluto. Certo, l’ascolto non è dei più semplici, e i tempi attuali non predispongono ad opere simili, ma per una volta accantonate l’apatia e acquistatelo. Dopotutto siamo di fronte al più grande jazzista di tutti i tempi, che diamine!

Massimo Tarabelli

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