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GEORGE COLEMAN – “A Master Speaks” – Smoke Sessions (2015)

GEORGE COLEMAN

Invitation / The Shadow of Your Smile / Blues for B.B. (*) / Blondie’s Waltz / You’ll Never Know What You Mean to Me / Darn That Dream / Sonny’s Playground / These Foolish Things / Time To Get Down

George Coleman, sax tenore; Mike Le Donne, pianoforte; Bob Cranshaw, basso; George Coleman Jr., batteria; Peter Bernstein, chitarra (solo in *)

Non lo avevamo dimenticato, ma certo che se non ci fosse stata questa piccola etichetta indipendente (ma gran parte della storia del jazz è legata all’intraprendenza e alla passione di una miriade di produzioni “minori”), di George Coleman non avremmo saputo più nulla. Classe 1935, George è uno dei più valorosi sassofonisti tenore post-bop, protagonista di una carriera strepitosa che do per scontato essere conosciuta, e soprattutto una fonte d’ispirazione per le generazioni successive. Un maestro, insomma, come ben recita il titolo di questo nuovissimo CD, che lo vede impegnato anche in una interessante intervista tenuta proprio da uno dei suoi migliori seguaci, Eric Alexander. Ammetto di essermi avvicinato al disco con scetticismo, perché ottanta anni sono comunque molti, in particolare per i “blower”, e mi sarebbe dispiaciuto sentire incrinata e velata una delle più belle sonorità espresse al tenore. Però sapevo anche che il sassofonista aveva da tempo diradato le apparizioni, evitando tour massacranti e sedute discografiche inutili, tanto che il suo titolo precedente risale addirittura al 2002, quel “Four Generations of Miles” per la Chesky, inciso con Mike Stern, Ron Carter e Jimmy Cobb. A dir tutta la verità, la motivazione principale della sua assenza prolungata dalle scene nostrane, e anche europee, è legata ad una richiesta economica altissima, forse esagerata, che neppure il grande Alberto Alberti riuscì ad abbassare. George conosce bene il suo valore, sa di essere stimato da tutti i musicisti che contano, e non gli importa un bel nulla (giustamente, secondo me) se il suo nome non “richiama” come quello di tanti altri peggiori di lui. E tuttavia, festival che gestiscono centinaia di migliaia di euro, per non dire milioni, avrebbero potuto ingaggiarlo senza indugi. (Abbandoniamo comunque questo discorso, perché ci porterebbe lontano). George Coleman è, a tutti gli effetti, ancora in forma eccellente, e quel che ha perso in scioltezza (per forza di cose) ha acquistato in sapienza, in un approccio all’essenza del pezzo svincolato da quell’eccessivo virtuosismo che lo caratterizzava per dar spazio ad un fraseggio più meditato e composto, dove ogni singola nota assume un preciso significato. Lo si avverte da una presenza cospicua di ballad, e dovunque da un apporto solistico imperniato su frasi brevi, quando la sua specialità erano lunghi soli spesso appesantiti da un utilizzo sovrabbondante del fiato continuo. Rimangono la tecnica scintillante, la sicurezza armonica (“Fate pratica, di continuo, in modo da poter suonare qualsiasi cosa su tutte le chiavi”, è il suo consiglio ai giovani), e soprattutto una meravigliosa sonorità, calda e setosa, stupendamente colta in tutte le sue minime sfumature: che spettacolo! E la ritmica lo segue in modo magistrale, in particolare Le Donne, ispiratissimo dal confronto con uno dei suoi idoli, e magnifico nel duo di “These Foolish Things”, che conferma la sua statura migliore quando è lasciato in totale solitudine.  Ecco, chi cerca almeno un fuoriclasse nell’impoverito panorama odierno, non si lasci scappare questo disco di autentico jazz, invero poco adatto a modaioli e a chi antepone i suoni alle emozioni.

Massimo Tarabelli

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