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SHELLY BERG “Blackbird” – Concord (2003)


Shelly Berg, pianoforte

Chuck Berghofer, contrabbasso

Gregg Field, batteria

 

All My Tomorrows /Estate /Blackbird /I Hear A Rhapsody /Questions And Answer /A Flower Is A Lovesome Thing /All The Things You Are /Hot It Up /Blame It On The Sun /She’s Always A Woman /If I Should Lose You /Julia

 

Shelly Berg ha due difetti. Il primo, grave, è che suona benissimo un jazz privo di complicazioni cerebrali, che bada innanzitutto alla bellezza della melodia e del suono d’insieme. Il secondo, gravissimo e imperdonabile, è di non essere drammatico, ma di trasmettere invece piacevoli sensazioni di ottimismo e di serenità, anche nelle ballad più scalognate e struggenti.

 

Il pianoforte, per Berg, non ha segreti. Dall’alto di un’esperienza notevole, pluridecennale, accanto ai migliori solisti e cantanti della costa ovest degli Stati Uniti, ha elaborato una sapienza di tocco magistrale, oltre ad una agilità delle dita rimarchevole. Mettiamoci anche la qualità della registrazione, superba come nella migliore tradizione dei dischi Concord, ed ecco un disco di pianoforte che si staglia, e di molto, dalla media della produzione attuale. A tale risultato contribuiscono, da par loro, due fuoriclasse assoluti come Berghofer e Field, gioia autentica per le orecchie. Soprattutto Gregg Field, che conoscevamo meglio come batterista di big band, fa sfoggio di grande fantasia nell’alternanza di spazzole e bacchette al servizio di un gioco di dinamiche che mi pare molto debba al grande Shelly Manne.

Quindi sincerità e verità vanno a braccetto in questi dodici brani, scelti con gusto tra classici, originali, e tre brani pop letteralmente rinati sotto la maestria dei tre. Parlo di “Blackbird” (Lennon & McCartney), evidentemente, e poi la notevole “Blame It On The Sun” (vecchia canzone di Stevie Wonder, del 1972) e “She’s Always A Woman” di Billy Joel (tratto dall’album “The Stranger” del 1977). L’estetica che sottende l’intera seduta è molto diversa da quella di un trio di New York, ma credo che il jazzofilo maturo e aperto debba saper apprezzare anche queste incisioni, solo in apparenza più “facili”.

Oltre settanta minuti di gran jazz, per concludere, da ascoltare in tutto relax con un buon impianto hi-fi; astenetevi se amate solo Matthew Shipp …

 

Massimo Tarabelli


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