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TERELL STAFFORD – DICK OATTS – “Bridging The Gap” – Planet Arts (2009)


TERELL STAFFORD – DICK OATTS


“Bridging The Gap” – Planet Arts (2009)


Bridging The Gap /Time To Let Go /Meant For You /Three For Five /Salvador’s Space /I Love You /JCO Farewell /Ben’s Beginning / The 6-20-09 Express


Terell Stafford, tromba, flicorno; Dick Oatts, sax alto; Gerald Clayton, pianoforte; Ben Williams, contrabbasso; Rodney Green, batteria 


Generazioni diverse, ma un medesimo orizzonte espressivo : ecco come si supera il “gap”, titolo del CD quanto mai azzeccato. I due leader sono tipi tosti, musicisti intelligenti che non si limitano a suonare (benissimo), ma lavorano sodo affinché la tradizione più nobile, cioè quella legata al jazz moderno di impianto boppistico, riesca ancora a fornire spunti tematici e arrangiamenti di assoluta modernità. Dick Oatts è tra i nostri preferiti in assoluto; non rammento un suo disco banale, fatto con superficialità o distacco, e il suo contralto è sempre stato al servizio di un jazz intrigante e difficile, originale pur se in filigrana è possibile scovare tracce del passato (da Parker a Dolphy passando per un altro grande dimenticato, ahimé, come Frank Strozier). Non è un controsenso poi che tra i dischi più riusciti, o almeno uno di quelli che amo di più, sia “Meru” per la nostra Red Record, realizzato con il sax tenore. Ciò che conta per Oatts è infatti il risultato e l’equilibrio della musica, come specchio di una filosofia della prassi che va oltre  i mezzi utilizzati. Stafford si pone sullo stesso piano di eccellenza. Nella sua tromba echeggiano Clifford e Dizzy, Freddie e Woody, ma la tradizione vive di palpiti e sussulti nuovi, che di antico hanno solo la fedeltà ad un linguaggio che parla al cervello, al cuore e allo stomaco (“guts”, budella, come si dice in gergo).


Una musica di questo livello ha bisogno di una sezione ritmica superlativa alla pari dell’aria che si respira. E qui, direi proprio che ci siamo. Gerald Clayton, figlio del grande bassista John, ha poco più di vent’anni, ma con ogni probabilità è il più brillante pianista della scena (indimenticabile la sua prova nel quintetto di Roy Hargrove alle Muse nel 2006); Ben Williams è il recente vincitore dell’ultimo “Thelonious Monk Competition” e per Rodney Green fanno la fila. Di fronte a tanta bravura, il repertorio non poteva che essere per la maggior parte inedito, scritto per l’occasione da Oatts, tranne uno standard e un paio di contributi di Stafford e Williams (il bozzetto di solo basso in “Ben’s Beginning”). Difficile scegliere perché i brani mi sembrano tutti interessanti e di pari valore, dalle ballads ai tempi medi o super veloci.


Un’ora, in definitiva, di grande jazz che, sono pronto a scommettere, rimetterete nel vostro lettore anche tra vent’anni. 


Massimo Tarabelli

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