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I remember you: BILL PERKINS “Quietly There” (Riverside; 1966; LP Limited Edition)

Quietly There / Emily / Groover Wailin’ / A Time For Love / Sure As You’re Born / Just A Child / Keester Parade / The Shining Sea / Something Different 

Bill Perkins, sax tenore, sax baritono, clarinetto basso, flauto; Victor Feldman, pianoforte, organo, vibrafono; John Pisano, chitarra classica e elettrica; Red Mitchell, contrabbasso; Larry Bunker, batteria

Durante questi lunghissimi e tristi giorni di domicilio forzato, è piacevole e interessante girovagare fra gli scaffali dei libri e dei dischi per cercare qualcosa da rileggere o da riascoltare: il tempo non manca di certo! Da qui la volontà di parlarvi di qualche nome, importante o meno, che magari conoscete poco o per nulla a causa dei soliti motivi di trascuratezza che stampa e critica riservano ai musicisti del passato.

Bill Perkins (San Francisco, 1924; Los Angeles, 2003) è stato uno dei più prolifici e tipici jazzisti che la West Coast abbia espresso, lo testimonia una discografia molto ampia, da leader ma soprattutto da sideman in orchestre e gruppi fondamentali nella storia del jazz. Non c’è stato in pratica musicista di rilievo che non abbia richiesto la sua perizia strumentale, che si diversificava in particolare nel tenore e nel baritono. Ve ne voglio citare un po’, tanto per rendere l’idea: Stan Kenton, Woody Herman (è presente nel disco mitico con Charlie Parker), Bob Florence, Marty Paich, Oliver Nelson, Clare Fischer, Toshiko Akiyoshi e Lew Tabackin, Richie Kamuca, Art Pepper, Shorty Rogers, Hampton Hawes, Bud Shank, Chet Baker, Tal Farlow, Terry Gibbs, Benny Carter, Anita O’Day, Four Freshmen, Ella Fitzgerald, Sammy Davis Jr., Mel Tormé, e ne trascuro innumerevoli altri per non tediarvi. Ebbene, nonostante questa carriera straordinaria, ritengo che rimanga tuttora un jazzista estremamente sottovalutato, se non ignorato addirittura. Le spiegazioni sono di sicuro da ricercare nel fatto che abbia svolto la sua attività in pratica solo sulla costa Ovest degli Stati Uniti, e non proponendosi mai come leader per tournee mondiali. Le cronache parlano di una sua partecipazione ad un gruppo guidato da Shorty Rogers nel 1985 che si esibì in Europa (Nizza Grand Parade du Jazz, Festival di Pescara, dove eravamo presenti), ma basta così. E’ chiaro come la cronaca l’abbia dimenticato. In realtà ci troviamo di fronte ad un musicista impeccabile per gusto, eleganza formale e identità personale, pur avendo, come tanti altri del periodo, in Lester Young e Stan Getz la principale fonte d’ispirazione. Bill accomunava swing roccioso nei tempi veloci ad una gentilezza e purezza nelle ballad di ammaliante equilibrio. In lui primeggiavano melodia e fraseggio, niente pattern o eccessivo virtuosismo, qualità che hanno permesso alla musica di rimanere nel tempo, di sfidare qualsiasi moda e uscirne vincitrice.

Fra i tanti titoli, tutti di valore elevato, ho scelto “Quietly There”, perché ci sono concentrate le virtù appena descritte, e poi perché il repertorio esce dalla penna di Johnny Mandel, melodista supremo e quindi ideale terreno per il sassofonista. Il quale mostra anche intelligenza nell’alternare gli strumenti, evitando così pericoli di saturazione e ripetitività. Allo stesso modo si comportano gli altri nomi importanti che lo accompagnano, a partire dal grande Victor Feldman, sempre avvincente sia che suoni il piano, l’organo o il vibrafono. Difficile scegliere un tema in particolare da questa scaletta, ma le ballad hanno una marcia in più, tale da non mostrare affatto le rughe del tempo.

Si sa che qualsiasi collezionista non è mai del tutto soddisfatto della sua discoteca, anche se vasta. Infatti, la bellezza del jazz è che prima o poi una nuova perla salta fuori, e questo “Quietly There” ne rappresenta il migliore esempio. Forse una copia potreste ancora trovarla, provateci.

Massimo Tarabelli

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