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I Remember You… EDDIE COSTA “The House of Blue Lights” – Dot (1959; LP)

The House of Blue Lights / My Funny Valentine / Diane / Annabelle / When I Fall In Love / What’s To Ya 

Eddie Costa, pianoforte; Wendell Marshall, contrabbasso; Paul Motian, batteria

Veramente strano e curioso il destino critico di Eddie Costa, pianista e vibrafonista americano scomparso in giovane età nel 1962 (trentadue anni, incidente stradale) e nel pieno della maturità artistica. Nel breve arco di carriera che l’ha visto protagonista, gli album incisi e le richieste di partecipazione si moltiplicavano, e in più direzioni stilistiche. Il suo nome appare, infatti, accanto a Joe Venuti, Tony Bennett, Joe Puma, Oscar Pettiford, Sal Salvador, Bill Evans, J.R.Monterose, Betty Roche, Bobby Jaspar, Johnny Mathis, Chris Connor, Manny Albam, Ralph Sharon, Tal Farlow, Vinnie Burke, Chuck Wayne, Hal McKusick, Herbie Mann, Phil Woods, A.K. Salim, Barry Galbraith, Michel Legrand, Ralph Burns, Woody Herman, Ernie Wilkins, Mundell Love, Art Farmer, Coleman Hawkins, Don Bagley, Harry Edison, Jackie Paris, John Lewis, Sauter-Finnegan Orchestra, Billy Byers, Clark Terry, Curtis Fuller, Julius Watkins, Tubby Hayes, Shelly Manne e ne trascuro altri: un elenco impressionante, ma che fotografa alla perfezione una natura onnivora e altamente creativa, in grado di fornire un apporto personale in qualsiasi contesto venisse collocato. Le mie preferenze vanno verso le situazioni in trio o quartetto, soprattutto accanto a chitarristi (straordinario il suo sodalizio con Tal Farlow), che riuscivano a mettere in primo piano un approccio alla tastiera affatto diverso, basato sempre su un senso roccioso dello swing, ma con un fraseggio del tutto singolare, in particolare dovuto ad un utilizzo intensivo della mano sinistra che si traduceva in un martellamento sui bassi da far tremare il pavimento! Più complesso descriverne lo sfondo espressivo. A suo agio in orchestra e nell’accompagnamento di cantanti, Eddie si posizionava in un filone mainstream, dominato dal Great American Songbook, ma quanto mai aperto a sollecitazioni bop e cool fino, addirittura, ad anticipare esperienze “free”. Se il pianista era figlio di studi severi, il vibrafonista era invece autodidatta, fatto che, come quasi sempre, aggiunge personalità e unicità, elementi essenziali nel campo del jazz. Ricordo perfettamente, a tal proposito, l’impressione che mi fece dopo averlo ascoltato in un brano nel grande disco “2-3-4” di Shelly Manne, in cui improvvisava secondo linee per nulla memori di Lionel Hampton, Milt Jackson o Red Norvo, al limite più vicine ad un altro interessante polistrumentista come Don Elliott. In mezzo a cotanta produzione, appena quattro sono stati i titoli registrati da leader, tutti poi per etichette minori come Jubilee, Mode, Coral e Dot, che ne hanno purtroppo determinato negli anni la totale dimenticanza da parte dell’ascoltatore medio (e, temo, anche di quello più acculturato). Tra questi, forse il più facile da reperire sul mercato è “Guys and Dolls like Vibes”, registrato nel 1958 per la Coral e ristampato dalla Verve su CD. Qui, il Costa vibrafonista è coadiuvato nientemeno che da Bill Evans, Wendell Marshall e Paul Motian, e il risultato finale è molto lontano dalle atmosfere di un Modern Jazz Quartet per dar vita, in realtà, ad un set colmo di idee, swing ed empatia tra i musicisti in grado di rinfrescare al massimo le melodie eterne di Frank Loesser.
Tornando invece al pianista, Eddie Costa è rappresentato in modo esemplare in questo “House of Blue Lights”, disco che si eleva dalla pletora di dischi con simile formazione in maniera decisiva. Dal titolo inziale, un blues di Gigi Gryce, passando attraverso standard e originali, Eddie svicola completamente dal pericolo di atmosfere da piano-bar, e assesta un bel pugno allo stomaco di chi invece si aspetta un disco rilassante e consolatorio, mettendo in discussione tutto, o quasi, in realtà, a cominciare dalla solita progressione tema-assoli -scambi con la batteria e ritorno al tema. Qui il dominio assoluto è riservato al pianoforte, esplorato e percosso in ogni suo tasto con una carica vitale inusitata. Al riascolto, mi sono balzati alla mente un paio di altri referenti, Earl Hines nell’importanza primaria dello strumento, e soprattutto Duke Ellington per il raffinato senso poliritmico, l’uso percussivo delle note, la peculiare “arte dell’inatteso”.
Trovabile soltanto in Giappone, da pochi anni la spagnola Fresh Sound ne ha curato la ristampa, però sempre su LP in tiratura limitata a 500 copie. Se si fosse trattato di un altro nome, sarebbe già esaurito, ma la superficialità odierna forse ne ha ancora salvata qualcuna. Provateci, Eddie Costa si meritava ben altra fortuna.

Massimo Tarabelli

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