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WESLA WHITFIELD “Livin’ On Love” – HighNote (2005)

WESLA  WHITFIELD

“Livin’ On Love” – HighNote (2005)

 

This Can’t Be Love /Our Love Is Here To Stay /East of the Sun /Pure Imagination /For All We Know /Get Out Of Town /Once In A While /The Gentleman Is A Dope /Alfie /I’m Glad There’s You /Do I Hear A Waltz /I’ve Heard That Song Before /Whistling Away The Dark

 

Wesla Whitfield, canto; Mike Greensill, pianoforte, arrangiamenti; Gary Foster, ance, flauto; John Wiitala, contrabbasso; Vince Lateano, batteria; 4 corni francesi

 

Ecco un’altra perla preziosa nascosta nel firmamento vocale americano e, come tale, ai più sconosciuta.

 

La Whitfield non è giovanissima e la sua vita è stata attraversata da una tragedia purtroppo non così rara nella giungla urbana USA. Un brutto giorno si è trovata nel mezzo di una sparatoria ed un proiettile l’ha colpita alla spina dorsale costringendola, dopo tribolazioni assortite, alla sedia a rotelle. Certo, possiamo anche dire che è stata fortunata a rimanere in vita, soprattutto perché non siamo rimasti privi di una personalità artistica superiore, piena di quelle doti che rendono un cantante superlativo veicolo di emozioni. Wesla abita il mondo del grande “American Songbook” e lo interpreta come si deve (o dovrebbe): introduce ogni song con la propria strofa (e, vi garantisco, molti pezzi straconosciuti assumono una veste del tutto nuova e imprevedibile), scandisce ogni parola, non si rifugia mai nel sentimentalismo e nell’acrobazia vocale, preferendo anzi l’”understatement”, quel viaggiare sotto traccia che porta l’ascoltatore direttamente nel cuore del brano. Grazie a questo sottile gioco di equilibri, tra il fruitore e l’esecutore si instaura un vero e proprio rapporto di complicità, un tenersi per mano sull’onda di un terreno comune. D’altro canto i referenti della cantante sono nobilissimi. Qua e là io ho trovato tracce di Lee Wiley, Mabel Mercer e Rosemary Clooney , nomi oggi dimenticati ma in realtà niente affatto obsoleti; anzi, l’originalità della Whitfield sta proprio nell’attualizzare tali capisaldi del jazz vocale.

Mi rendo anche conto che questo mondo è molto lontano dai noi europei (ma in Inghilterra e nei Pesi scandinavi è invece piuttosto apprezzato), più sensibili a un modo di cantare estroverso e swingante, vicino al fraseggio strumentale e con frequente utilizzo dello “scat”.

Qui c’è tanta cultura unita a un senso del bello al quale non sono estranei gli arrangiamenti del pianista Mike Greensill, da anni fedele accompagnatore della cantante. In otto brani compare infatti un quartetto di corni francesi che dà un tocco di pienezza e colore assai interessante, pur richiamando le atmosfere care a Gil Evans e a Stan Kenton. Ad ogni modo, dovunque emerge la sapienza solistica del pianista e, in particolare, di Gary Foster, eccellente in tutti i sassofoni e al flauto. Foster è senza dubbio uno dei più brillanti jazzmen della scena californiana, di cui però si erano perdute le tracce negli ultimi anni. La sua presenza è un ulteriore punto a favore di questo disco splendido, tra i migliori ascoltati nell’anno, che consiglio vivamente a tutti coloro che amano le grandi canzoni senza tempo e che sanno apprezzarle. Lo ascolti anche chi accetta solo il presente; con il passare del tempo lo capirà sempre più (a meno che non sia un caso disperato…).

 

Massimo Tarabelli

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