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JIM SNIDERO – “Stream Of Consciousness” – Savant (2012)


Stream Of Consciousness /Nirvana /Fear One /
Vantage /Black Ice / Wisdom’s Path /K-Town

 


Jim Snidero
, sax alto;
Paul Bollenback, chitarra;
Linda Oh, contrabbasso;
Rudy Royston, batteria

 

Nuova formazione e cambio di rotta per Jim Snidero, che qui si conferma il più interessante altista di oggi.
In piena maturità, a cinquantacinque anni, il sassofonista californiano abbandona (se definitivamente
non è dato sapere) il repertorio degli standard e le coordinate hardbop che ne hanno segnato finora
l’universo espressivo, e si avventura in una direzione più complessa, in cui la dimensione del solista e
ritmica lascia il posto ad una musica maggiormente d’insieme, con l’aspetto compositivo in primo piano.
Intendiamoci, gli assoli ci sono, e pur pregevoli, ma il centro d’attenzione sono le strutture e le linee
melodiche dei brani, tutti usciti dalla penna e dall’estro del leader. Da questo punto di vista, Snidero pensa
come Ellington, e scrive tenendo conto che ora al suo servizio c’è una chitarra e non più un pianoforte. In
effetti Bollenback dimostra notevole intelligenza quando passa dall’elettrica all’acustica e lavora su sonorità
specifiche essenziali per l’atmosfera generale di ogni singolo pezzo. In tutto il disco avvertiamo un’aura di
filosofia orientale (e la copertina, basata su un tipico disegno di un giardino zen, è chiara anticipatrice), e
quindi in filigrana da Coltrane in giù. Ma i rimandi stilistici non finiscono qui : la sonorità dell’alto richiama
a volte Art Pepper, oppure Frank Strozier o Gary Bartz, e la concezione di swing assume connotati del
tutto diversi da come ci eravamo abituati finora. Eppure, sempre di jazz si tratta, e che jazz : passione e
raziocinio, cuore e sostanza servono per dar vita a soli eccellenti, incastrati in impianti armonici piuttosto
complicati, a dir la verità, che impongono un ascolto attento. Si va dal modale minore del titolo, basato su
una scala eolica, al modale maggiore di “K-Town”, passando per ballads, tre quarti, un brano esemplare
come “Fear One”, basato sì sugli accordi di “Cherokee”, ma talmente trasfigurati che Bob Blumenthal,
autore delle note di copertina, ammette che nessuno dei suoi amici musicisti li ha riconosciuti, per
terminare con il funky blues “Black Ice”. Notevoli i ritmi : Linda Oh mette in vetrina una grande plasticità
di movimenti fondamentali per la coesione del gruppo, e Royston dimostra tecnica e agilità superiori, al
servizio di uno stile basato non più sul classico accompagnamento in quattro, ma piuttosto su frasi ritmiche
legate e frastagliate. Non mi sembra affatto che ciò appesantisca il disegno complessivo, tutt’altro. Certo,
ci vogliono controllo, padronanza del materiale, lucidità estrema per rimanere al di qua di un discorso che
altrimenti correrebbe il serio rischio di rimanere scarsamente intelligibile. Per ora, comunque, godiamoci,
ascoltandolo più volte, questo disco, con la speranza di vedere il quartetto dal vivo, situazione forse ancor
più entusiasmante e ideale per una musica così concepita.
Massimo Tarabelli

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