Sarebbe interessante far ascoltare “Check-In” in un blindfold test: ne sentiremmo delle belle! Questo, infatti, è uno dei dischi “made in Europe” più americani che abbia sentito, e non è affatto una critica, ma un segno positivo, nel momento in cui ci conferma quanto il jazz, pur essendo nato e cresciuto al di là dell’Atlantico, sia ormai linguaggio universale, patrimonio di tutte le culture.
Roberto Magris suonò in una lontana edizione di Ancona Jazz, nel 1992, e si trattava di una serata doppia, condivisa con il sestetto storico di Gianni Basso e Oscar Valdambrini. Anche allora il pianista triestino guidava un organico mitteleuropeo, con una front line di sassofonisti senza trombe o tromboni. E poco è cambiato nella musica proposta: la tradizione, magari filtrata dall’esperienza coltraniana, porta il quintetto a lavorare sull’inatteso, facendo leva su arrangiamenti peculiari che privilegiano le due ance, sia in unisono che in contrappunto e differenziando i timbri degli strumenti.
Già conoscevamo Tony Lakatos, poderoso sassofonista ungherese vicino alla potenza sonora di un Sonny Rollins, e tuttavia ottima impressione suscita l’austriaco Michael Erian , a sinistra nel vostro impianto stereo, riconoscibile anche per via di un suono più esile e un fraseggio più snello, memore addirittura di Warne Marsh (almeno, a me l’ha ricordato).
Nella ritmica il bassista ceco Balzar e l’italiano Centis svolgono il loro lavoro con precisione, fantasia e swing, ma il leader colpisce per la sapienza nell’accompagnamento e nell’audacia delle sortite solistiche. Roberto ha ascoltato e digerito molto, e il suo stile, agile in ogni parte della tastiera, è un personale frullato di bop e free, le cui frasi si rincorrono continuamente.
Il CD ci fa tornare in Italia con una sentita versione per trio della bella canzone di Gino Paoli, ed è la maniera migliore di chiudere una seduta preziosa, che si ascolta tutta d’un fiato snodandosi tra standard e azzeccati temi originali.
Probabilmente uno dei dischi dell’anno.
Massimo Tarabelli