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I Remember You… HOWARD McGHEE “Maggie’s Back in Town!!” – Contemporary (1961; LP)

Demon Chase / Willow Weep For Me / Softly, As In A Morning Sunrise / Sunset Eyes /
Maggie’s Back in Town / Summertime / Brownie Speaks

Howard McGhee, tromba; Phineas Newborn Jr., pianoforte; Leroy Vinnegar, contrabbasso;
Shelly Manne, batteria

“Il jazz è la musica di una moltitudine – pochissimi famosi, innumerevoli senza nome”. Così scriveva argutamente Studs Terkel nel suo bel libro “I giganti del jazz” (Sellerio editore, p. 229; temo fuori catalogo, cercatelo comunque, ne vale la pena!). In un mondo, quello del jazz, che ama più di altri le classifiche e i riconoscimenti, un’affermazione del genere potrebbe apparire fuori luogo, ma in effetti possiede una realtà storica con cui concordo pienamente. Musica collettiva e allo stesso tempo individuale, il jazz offre spunti di riflessione che vanno ben al di là del mero aspetto formale. In sostanza, qualsiasi esecuzione ha dietro di sé un passato, il quale permette, se conosciuto, di capire al meglio ciò che si sta ascoltando.
Quando Howard McGhee si trova nel suo periodo più fervido, cioè tra gli anni ’40 e ’50, non è importante come Bird, Dizzy, Miles o Monk, ma neppure si tratta di uno sprovveduto. Ha già alle spalle partecipazioni in orchestre importanti come quelle di Andy Kirk, Lionel Hampton, Charlie Barnet, Count Basie e Machito; poi aveva frequentato il leggendario Minton’s, dove era diventato uno dei più autorevoli esponenti be-bop, tanto da registrare con Charlie Parker (la famosa, perché straziante, seduta di “Lover Man” per la Dial nel 1946) e con altri eccelsi sassofonisti quali Coleman Hawkins (“Hollywood Stampede”, Capitol, 1945) e Lester Young (“The Aladdin Session”, ristampa Blue Note, 1945) nel momento del loro passaggio verso le tendenze moderne. Si accorge di lui anche Norman Granz, addirittura, che lo invita nei tour del Jazz At The Philharmonic, passerella dei musicisti più virtuosi della scena americana. Ma Howard ha problemi “personali” legati all’utilizzo di stupefacenti, non riesce a mettere in piedi propri gruppi, e si propone sempre come “free lance”, ospite continuo di musicisti sì a lui affini, ma allo stesso tempo impossibilitati a creare situazioni creative durevoli.
Anche questo “Maggie’s Back in Town” non sfugge alla regola. Coadiuvato da una superba sezione ritmica, in cui Phineas Newborn Jr. lascia capire perfettamente i motivi per cui è sempre più studiato, fino ai pianisti delle ultime generazioni, Howard interpreta la seduta come una sorta di jam, in cui peraltro si trova a suonare accanto a Leroy Vinnegar per la prima volta. Eppure, tutto funziona a meraviglia: a parte gli standard, gli altri temi escono dalla penna di Teddy Edwards – forse il sassofonista con cui il trombettista ha maggiormente legato nel suo percorso artistico – Clifford Brown e dello stesso McGhee (il blues iniziale). E sono momenti felici, si avverte subito che il leader ha voglia di suonare, è stimolato positivamente, le idee si susseguono senza sforzo ed è facile, magari per lo studioso più attento, cogliere nel suo fraseggio tensioni ispiratrici di strumentisti futuri quali Cecil Bridgewater e Charles Tolliver.
Fino al termine degli anni ’70 gli studi di registrazione gli apriranno spesso le porte, più che altro nelle vesti di sideman, al contrario dei concerti, sempre più rari; poi tali opportunità inizieranno a diradarsi fino alla morte, nel 1987, avvenuta in assoluta povertà, dimenticato in pratica da chiunque.
Tuttavia, osservandolo in retrospettiva, il suo lascito musicale è notevole e cospicuo, non certo paragonabile a quello di un fuoriclasse quanto piuttosto come ritratto di uno strumentista eccellente, solido, di quelli che non tradiscono mai perché fedeli al linguaggio più autentico, basato sullo swing, sul blues, sull’improvvisazione logica. Ascoltiamolo di nuovo, o scopritelo per la prima volta magari proprio con questo titolo, e capirete ben presto quanto sia vero che “Il jazz è la musica di una moltitudine”.

Massimo Tarabelli

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