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I Remember You… VIC DICKENSON “Gentleman of the Trombone” (Mahogany, 1975; LP)

Too Marvelous For Words / Nice and Easy Blues / Just Too Late / Shine / Sweet Sue, Just You/ Bye Bye Blackbird / More Rain More Rest / S’posin’

Vic Dickenson, trombone, voce; Johnny Guarnieri, pianoforte; Bill Pemberton, contrabbasso; Oliver Jackson, batteria

Su Vic Dickenson (1906-1984) leggerete sempre ben poco su qualsiasi enciclopedia del jazz, wikipedia o altri testi. Quello che serve: la carriera, vasta tanto da abbracciare decenni stilistici, dall’hot allo swing, e un cenno sulla sua grande peculiarità stilistica, fondata su utilizzo estensivo, a mo’ di autografo, delle sordine.
Tutto importante, per carità, ma a me interessa piuttosto, e maggiormente, “the story behind the story”, in sostanza le qualità umane e poetiche dell’artista, quelle in grado di produrre emozioni. E quando ascolto Dickenson, e lo faccio spesso essendo uno dei miei favoriti in assoluto, queste appaiono sempre, in qualsiasi contesto il suo strumento sia protagonista, dal combo all’orchestra. Solista di supreme doti improvvisative, unite a individualità del suono, plasticità di fraseggio ed eleganza espressiva, Vic apparteneva di diritto alla scuola coeva di Lester Young, Buck Clayton, Pee Wee Russell, Teddy Wilson, Ruby Braff, Bobby Hackett, insomma i tanti che facevano del lirismo la loro principale musa. Potete ben immaginare quanti dischi abbia registrato, soprattutto da sideman, essendo il suo stile un ponte tra il dixieland e il mainstream swing. Lo ebbe così tanto a cuore George Wein, uno dei massimi produttori del secolo scorso, da invitarlo ripetutamente in tour e concerti in ogni parte del mondo (non ricordo però l’Italia…che novità!). In particolare, la sua presenza era certa alla Grand Parade du Jazz di Nizza, che si svolgeva ogni anno nel mese di luglio per una settimana e oltre (con l’avvento dell’epidemia Covid è stata definitivamente cancellata, dopo cali costanti di pubblico). Per noi di Ancona Jazz quel festival, che abbiamo seguito parecchie volte, è stato maestro supremo di musica, innanzitutto, e poi di intraprendenza organizzativa, che ci ha permesso di incontrare tante leggende del jazz tutte in una volta. Vic Dickenson animava gruppi e jam session, da ottimo free-lance qual è sempre stato. Un’occasione è rimasta indelebile nella mia memoria. Si trattava di una jam, per l’appunto, guidata dalla sassofonista inglese Kathy Stobart, nel 1979. Lo ricordo bene perché mi ero piazzato proprio sotto il palco. Mentre Kathy parlottava con gli altri musicisti, Vic se ne stava in disparte, seduto nella mansione di riscaldare il suo strumento. Kathy gli si avvicinò e gli chiese se avesse un pezzo preferito per cominciare il concerto: “No, fate quello che volete voi”, le rispose tranquillamente. E lei, di rimando: “Con che tonalità desideri che partiamo?”, “Quella che volete voi” fu la medesima risposta, stavolta accompagnata da un sorriso disarmante. Questa era la stoffa dei musicisti passati, amici miei, padroni assoluti del linguaggio jazzistico, tale da influenzarne pesantemente lo stile di vita, il modo di rapportarsi con gli altri. A me è sembrato subito un fuoriclasse, un vero e proprio “gentleman”, rispettoso e rispettato da tutti. Evidentemente non ero il solo a pensarla in quel modo, perché poi mi ritrovai tra le mani questo vinile il cui titolo già lo ritraeva perfettamente. E la musica non tradisce le aspettative: garbata con swing a tonnellate, e profonda il giusto nelle ballad. Nella formula del quartetto Vic esprime al meglio tutte le sue potenzialità creative, a partire proprio dall’uso di sordine diverse, mute o wah-wah, per finire con un apporto vocale meno praticato, ma ugualmente affascinante e prezioso. Due soltanto sono infatti i temi in cui canta, la squisita ballad originale “Just Too Late”, che io prediligo, e il più mosso “More Rain More Rest”, che desta interesse per essere stato scritto da un altro “unsung hero” del jazz classico, il trombettista Jabbo Smith nel 1938, e ben di rado riproposto. Se il trombonista domina la situazione, Johnny Guarnieri non gli è da meno nell’economia solistica. Come dubitarne, del resto? Il pianista fu uno dei più richiesti negli anni ’30 e ’40 da leader di grande prestigio quali Benny Goodman, Jimmy Dorsey, Artie Shaw, Don Byas, Frank Sinatra, Charlie Christian, grazie ad uno stile di riuscita sintesi da Fats Waller a Teddy Wilson. La sua tecnica scintillante si evince in particolare in “Shine” e nell’intro stride di “S’posin’”, ma anche l’accompagnamento merita l’ascolto più attento. Molto bene i ritmi, però un cenno a Oliver Jackson va fatto, essendo stato non soltanto uno dei principali batteristi mainstream (qui in grande evidenza in “Shine”), ma anche per aver interpretato il suo ruolo con stile, classe e umiltà, perfetto alter-ego di Dickenson, si potrebbe dire. Resta memorabile la sua partecipazione ad Ancona Jazz nel 1984, quando si presentò con il suo quintetto in impeccabile  smoking e improvvisò un numero di tip-tap! (Lo ritrovammo tre anni dopo, sempre al teatro Sperimentale, in un tributo a Count Basie accanto a giganti quali Clark Terry, Al Grey e Buddy Tate).
Un disco semplice, in definitiva, con pochi arrangiamenti per lo più verbali, ma che racchiude in sé tutte le verità del jazz più autentico. Se non lo trovate, vale il solito discorso, qualsiasi altro disco che vi permetta di scoprire Vic Dickenson merita l’acquisto: certo, se riusciste a rimediare le incisioni Vanguard del 1953, autentici capolavori, sarebbe anche meglio!

Massimo Tarabelli

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