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SCOTT HAMILTON “Poinciana” – Fonè Jazz (2021; super audio CD)

Birk’s Works /By Myself/ You Taught My Heart To Sing / Chloe / Confirmation / I Remember Clifford /
Poinciana / Put On A Happy Face / Eu E A Brisa 

Scott Hamilton, sax tenore; Paolo Birro, pianoforte; Aldo Zunino, contrabbasso; Alfred Kramer, batteria 

Siamo negli anni ’70, sul finire. Il jazz ha preso strade diverse: i musicisti più giovani (ma non solo) abbracciano il jazz-rock, si trascinano gli echi del “free” dal decennio precedente, riscontra un grande successo l’esotismo della ECM, e molti jazzisti americani indossano il dashiki, visivo richiamo alla madre Africa. Nulla lascia prevedere una figura come Scott Hamilton. Eppure, eccolo lì, ce lo ritroviamo di fronte alla Grand Parade du Jazz di Nizza, poco più che ventenne, in perfetta giacca blu, pantaloni bianchi e capelli corti pettinati all’indietro: sembra un componente redivivo dei Wolverines di Bix Beiderbecke! Suona il sax tenore con una logica e un fraseggio sorprendenti, già maturi, eleganti. I suoi modelli di riferimento evitano i soliti Rollins e Coltrane, non sia mai per carità: bisogna invece fare un salto indietro, alla triade Hawkins-Young-Webster, sassofonisti creatori di uno stile solo apparentemente dimenticato.
Scott (1954) è la punta di diamante, insieme con un altro giovane quasi coetaneo, il cornettista Warren Vaché (1951), dell’etichetta Concord di Carl Jefferson, specializzata nel mainstream jazz, genere ormai di nicchia. Incide dischi a iosa, in tutte le combinazioni possibili, accanto ai grandi ancora vivi del passato e a cantanti del calibro di Rosemary Clooney, Ernestine Anderson, Maxine Sullivan, Tony Bennett e Susannah McCorkle; ma quando Jefferson muore, gli eredi cambiano rotta artistica della casa discografica e Scott è costretto ad emigrare in Europa. Da qualche anno si divide tra Inghilterra e Italia, e da qui si muove dovunque, continuando a suonare con chiunque accetti il suo linguaggio, e incidendo essenzialmente per la svedese Stunt e l’italiana Fonè. Proprio quest’ultima gli sta dando le maggiori soddisfazioni. Di sua natura “free-lance”, Scott ha in realtà trovato nei tre musicisti sopra indicati una sezione ritmica fissa e straordinaria, in grado di seguirlo nel modo migliore e di valorizzarne gli spunti creativi. Con Paolo Birro, a mio avviso il pianista più sensibile e poetico che abbiamo sulla scena nazionale, si trova a meraviglia, tanto da suonarci spesso in duo. Tutti e quattro innamorati e devoti del suono acustico, non potevano scoprire in Giulio Cesare Ricci partner migliore, perché la Fonè si va giustamente vanto di registrare sempre in analogico con microfoni valvolari nel rispetto massimo dei timbri e della qualità artistica della musica, preservata in tutta la sua naturalezza.
Sia il super audio CD sia il vinile, rigorosamente tirato a 496 copie, appaiono splendidi all’ascolto, con l’unico ostacolo derivato dal fatto che, per sfruttarli al meglio, necessiterebbero di un impianto adeguato, di quelli super audiofili che ben pochi si possono permettere. Ma il confronto con la produzione “normale” resta improponibile. Godiamoci quindi questa ora di jazz immacolato, quello a cui Hamilton è stato sempre fedele e che non dimostra, almeno secondo i miei gusti, alcuna ruga.
Forte di una modestia rara, Scott ha sempre puntato sugli standard, specialmente quelli del Great American Songbook, evitando originali che, al loro raffronto, risulterebbero sconfitti in partenza. Tutto il contrario di ciò che accade oggi, quando la stragrande maggioranza dei jazzisti più giovani si fa vanto di eseguire composizioni proprie, subito dimenticate dopo il primo ascolto. E direi che l’interesse di questo nuovissimo disco sta per l’appunto nel repertorio, che abbraccia sessant’anni di storia con vivo spirito unificante (al solito, il come conta più del cosa). Il pezzo più datato è “Chloe” del 1927 e inciso da una marea di musicisti, Louis Armstrong in testa. Quindi “Poinciana” del 1936, reso famoso da Ahmad Jamal e dai Four Freshmen, “By Myself” del 1937, scritto da Arthur Schwartz e immortalato da Judy Garland e Fred Astaire (film “Spettacolo di varietà”), “Put On A Happy Face” del 1960, motivo di punta del musical “Bye Bye Birdie” interpretato da Dick Van Dyke, un pugno di brani bop e post-bop  degli anni ’40 e ’50 quali “Birk’s Works” di Gillespie, “Confirmation” di Parker e la grande ballad “I Remember Clifford” di Benny Golson, per finire con un tema di McCoy Tyner, “You Taught My Heart To Sing”, comparso per la prima volta nell’album “It’s About Time” del 1985, accanto a Jackie McLean, e che poi il pianista riprese più volte su dischi e concerti (rammento una versione da brividi proprio ad Ancona, in trio sul palco dello Sperimentale). Non poteva infine mancare uno sguardo al Brasile, e anche qui la scelta è preziosa, perché trattasi di una bossa nova deliziosa di Johnny Alf risalente al 1967 ben di rado eseguita.
Possiedo molti dischi di Scott Hamilton e l’ho sempre trovato ispirato e convincente. Oggi, a sessantotto anni, dimostra di possedere ancora idee, sonorità e intuizioni da caposcuola riconosciuto. Ma anche, e soprattutto, un’onestà di fondo invidiabile, una passione che travalica la volontà di apparire in copertina, fregandosene dell’apatia critica nei suoi confronti in nome della bellezza della musica. Scott sa che non farà mai grandi platee, e che non diventerà mai ricco con quello che suona. Ma è sulla scena da decenni, al contrario di tanti altri lodatissimi che sono però durati lo spazio di un mattino.
Ha avuto ragione lui.

Massimo Tarabelli

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